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CIRCOLO CULTURALE

ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE
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Il
vernacolo
Ricordo bene quella sera d’estate, quando invitammo Spartaco
Marcucci e Domenico Bertuccelli nella nostra prima
sede di Camigliano.
Era da un anno che avevamo fondato la nostra associazione e
sistemato la nostra sede.Il presidente di allora, Giuseppe Dovichi,
aveva disegnato sul muro esterno il busto di un indiano d’America con
lo sfondo di un accampamento innevato e sul piccolo giardino era già alta
l’erba seminata con tanta cura.
Quella sera seguivamo con attenzione ed
interesse l’avvicendarsi di Domenico e Spartaco nel leggere le poesie
dialettali scritte da loro stessi.L’entusiasmo fu tale che decidemmo di farne
un appuntamento annuale.
Negli anni seguenti il numero dei poeti aumentò poiché
venne coinvolta l’Associazione Culturale “Cesare Viviani” di cui
Domenico era entrato a far parte, la corte prese il posto del piccolo giardino e
gli spettatori cominciarono ad
arrivare anche dai paesi vicini.
Per adesso sono
presenti in questa pagina:
- Domenico Bertuccelli e l'Associazione Culturale "Cesare Viviani"
- Spartaco Marcucci
- Giovanni Giangrandi
-
Stefania Consani
- Le poesie che ci
arrivano
Domenico Bertuccelli e l'Associazione Culturale "Cesare Viviani"
Biografia
Domenico Bertuccelli, è nato nel Maggio del 1949 , nella
campagna lucchese, ha passato parte della sua vita all’estero e ha cominciato a
riscoprire il “mondo dialettale lucchese” dopo i quaranta anni, diventandone un
sicuro punto di riferimento.
La sua produzione letteraria (poesie, prose e commedie
dialettali) comincia nel 1993, dopo un periodo di appassionata ricerca di
vocaboli dialettali. Dall’inizio si firma con lo pseudonimo “Gavorchio”,
parola dialettale che fa riferimento a quei vecchi chiodi, forgiati a mano, con
materiale ferroso di scarto, che con un po’ di fortuna, è ancora oggi possibile
trovare in un vecchio muro o in una trave di legnoE' uno dei soci fondatori dell’Associazione Culturale “ Cesare Viviani”, diventandone uno dei membri più attivi, e pubblica le sue poesie nella
“Raccolta di Versi Sperversi” – (Collana di autori Lucchesi- Ass.Culturale
Cesare Viviani).Nel 2005 ha selezionato alcuni brani della "Raccolta di Versi
Sperversi" e ne ha aggiunti alcuni nuovi, chiamando la nuova raccolta.
" Un colpo al cerchio e un' al tin' ". La copertina
(riprodotta a fianco) di "carta gialla" ricorda tempi passati,
quando quel tipo di carta economica veniva usata per foderare i libri di scuola.
Le sue poesie dialettali sono un’armoniosa e sapiente
combinazione tra satira, comicità e tradizione popolare; miscela che suscita
inevitabilmente il sorriso o l’ilarità del lettore.
Per ulteriori e approfondite informazioni è possibile
collegarsi al suo sito:
www.gavorchio.it
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Di seguito alcune poesie di Gavorchio e di alcuni membri
dell'Associazione Culturale "Cesare Viviani":
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IL FIGURINAIO DI COREGLIA
(di
Gavorchio)
(il
protagonista parla francese stentato)
Una mano bussa forte,
in quella grigia via,
ad una, a cento porte,
offrendo mercanzia.
“Madam’,
mademuaselle, vulé le statuette ?
guardate ‘vant’èn’
belle, che dorci siluette !
Fan’ solo sette
franchi, sa..anch’io gè’ famiglie!
Prendè’ dù’ cicchi
bianchi, per la petitte figlie!”
“I’r prezzo è assai
tirè’, l’ho già ridotto all’osso !
Le gesso è colorè,
Madame, meno ‘un posso !
Bien... facciamo sei,
ma badi, ci rimetto !
Proprio perch’è lei !”
E abbozza un sorisetto.
Que’r ciuffo di
capelli, biondi da straniera,
que’ l’occhi chiari e
belli, ne’r bigio della sera,
nì’ fan’ tornà’ alla
mente, la donna che l’aspetta,
Coreglia, la su’
gente, què’ monti, la casetta.
“ Madame mersì’,
orvuà’ ” Ossequia ringraziando,
“ C’est trés gentil à toi ! ”
Lei risponde sorridendo.
Lù’ guarda
tristemente, la casa e la Madame
e pensa: Quella è
gente che ha conosciuto fame.
Sospira e s’incammina,
con passo cadenzato,
e alla porta lì
vicina, la man’ ha già bussato.
Ir pensiero sempre
assorto, alla tèra sua lontana,
la vigna, ir campo e
l’orto, lasciati giù in Toscana.
“Oui dite, c’est
pourquoi? ” ‘Na voce lo risveglia,
“Madame, scusè’ muà’….
sognavo di Coreglia !”
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L’AROTINO
di Gavorchio
Arotinoooo.....!
Arotinoooo......! Arotinoooo!
Si sentiva urlà''
da lontan' vell'omino,
e'ntanto su'r'tricicro
co'ppiedi pedalava
co' 'na mola
collegata che pianin' girava.
Le mano 'nsùppe
e da'r'freddo 'ntiriszite
struciavin' le
lame ch'andavino affilate,
da'n' ciòttoro,
lacqua lenta sgocciolava
in su'na pietra
che tutt'attorno schissettava.
Forbice,
pennata, cortelli e per'un'fin' rasoi,
tornavin' come
novi da 've'r'momento n' poi,
aggiùe per le
redole si sentiva sferaglià'
mentre le lame
lustrenti faceva sfavillà'.
Finita l'opra e
ricevuta equa ricompensa,
e co' l'arnesi
finiti' di novo nella dispensa,
sorridendo
s'allontanava ancora 'vell'omino
mentre si
sgolava a urlà': Arotinooo! Arotinooo!
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"
PATATE "
(di Loretta Caselli)
Il
lunedì mi' ma' le rifaceva
insieme
al lesso che c'era avvanzato,
io mi
riordo mi' padre che diceva :
" un le
lasciate nel piatto che è peccato "
Il
martedì èrin lesse e pò condite
così con
l'olio o con il latte e buro ,
io
brontolavo ( 'un mi son mai piaciute )
l'avrei
volute appiccicà nel muro .
Il
mercole però erino fritte
e io per
prima..." o mà quante ne tocca ...? "
Ma le
metteva mano alle ciabatte,
" hai
l'occhi che èn più grandi della bocca " .
Il
giovedì toccava alle polpette,
patate,
ova cacio e peporino ,
mi' pà
diceva " 'un le mangiate stiette,
mangiate
il pane e fatene abbicino " .
Il
venerdì c'èra la frittata ,
era mi'
mà che la faceva a fette,
ma la sù
mano da tutti era guidata ,
dovevin
esse uguali tutte e sette.
Il
sabato mattina dopo il pane,
c'era la
teglia pronta per il forno ,
venivin'
da leccà anco il tegame,
da dinni
" io saravero ci ritorno " .
E la
domenica fra urli ed orazioni ,
mi' mà
si divertiva a fà gli gnocchi ,
con
quelle mani un pò dentro i pastoni,
e un
popò all'aria per ispartì gli stiocchi .
Di
giorno, di sera, d'inverno e anco d'estate,
ero
diventa una patata anch'io ...
" che
c'è di bono mà.....? " " e rièn patate"
" anc'oggi...?
" E mi' pà " ringrazia Dio " .
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" FUNGHI "
(di
Loretta Caselli)
Se tu li fai
al tegame,la gnebita ci vole,
è guasi di
rigore,che gusto che ni dà...!
Ma l'aglio è
obbligatorio,ci vole in abbondanza,
fà dire alla
pietanza " 'un mi potrai scordà "
Se li voi fà
arostiti , scalda ben ben una griglia,
ma l'olio bono
piglia, stà attenta 'un ti sbaglià ,
èn boni per
contorno al pollo o alla bistecca,
i baffi si
rilecca, chi li potrà assaggià .
Se invece li
fai fritti, và ben l'olio di semi,
ma guarda che
un'iscemi, ci devin galleggià ...
quand'enno
infarinati, allora ce li butti,
però se c'enno
tutti....da retta 'un li fà .
Se tu li voi
fà secchi, per facci il sugo bono,
'un devin
perde tono, ma devin scrocchiolà ,
pò quando vien
l'inverno, si fanno rinvenire,
ma 'un'èn cose
da dire , èn robbe da provà .
Ora te l'ho
insegnati in tutte le maniere,
ti resta quel
mestiere più duro da imparà ...
ma quello mi
dispiace davero ma 'un lo insegno,
ti devi armà
d'ingegno e andatteli a cercà .
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ALLA POSTA
(di
Renzo Tori)
Per adémpie all’obbrigo
fiscale
andiedi all’ufficio
postale;
c’aveo da pagà un po’
di tasse
la luce, ‘l telefano e
‘l gasse.
Il locale, per
fortuna, era deserto;
un unìo sportello era
aperto
e l’impiegato, con
gran concentrazione
era ‘ntento a lègge
“La Nazione”.*(quotidiano)
“Bongiorno, mi scusi,
io dovrei…”
“Si metta ‘n coda e
aspetti, ‘un tocca a lei!”
m’interruppe, di morto
‘nviperito.
Io mi guardai ‘ntorno,
intimorito,
ma ‘un c’era nessun’altro,
lì drento.
“Mi scusi, dovrei fa’
un versamento…”
“N’ho di già detto di
‘un fa’ ‘l prepotente!
Rispetti la fila, ‘un
sia ‘mpaziente!”
Per siurezza di nòvo
mi vortai
che la stanza era vòta
costatai
e ancor mi rivorsi
all’impiegato:
“Mi scusi tanto se
l’ho disturbato…”
“Ah, ma lei è proprio
‘nsistente!
Attenda ‘l su’ turno,
o ‘un si fa’ niente!”
mi sbraitò quell’operator
postale
senza arzà l’occhi dal
giornale.
A quel punto ‘n bocca
radunai
un bel po’ di saliva,
la ‘mpastai
presi bene la mira, e
senza sbaglio
gli sparai in der muso
uno scaraglio.* (sputo)
Lì per lì, rimasse
sconcertato,
po’, asciugandosi,
strillò: “Chi è stato?”
Io ni risposi: “E chi
lo sa?
Co’ ttutta la gente
che c’è qua…”
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FACENDO
LE ‘ORNA
(di Renzo Tori)
Du’ vecchie
amìe,* che doppo un mucchio d’anni, (*amiche)
si
rincontronno per combinazione
si misseno a
fa’ conversazione
sulle loro
gioie e i lor malanni.
“Sono in un
momento molto brutto”
disse la
prima, di nero vestita,
“con me
ingrata è stata la vita
e, come vedi,
ora sono in lutto,
poiché ‘l mi’
marito, ‘l bon Beppino,
(te n’arriordi,*
com’era ben piazzato?) (* ti ricordi)
è stato così
tanto scarognato
che l’altro
giorno ha tiro ‘l calzino!
Ma parlà di
disgrazie, ‘un ci ‘onviene;
e a te, dimmi
un po’, come ti va?”
“Facendo le
‘orna, mi posso contentà
e anco ‘l mì
marito sta assai bene!”
“Ne son lieta
per te, ma è ‘ngiusto ‘l Fato
perché, se
rivango ‘l mì passato
le ‘orna
anch’io gliel’ ho fatte spesso
ma ‘l mì
Beppino… è morto lo stesso!”
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PRATO FIORITO
(di
Mario Pellegrini)
Profumo di foglie
umidi muschi
ricci dorati che
cadono a terra
scoscesi pendii tra
faggi e castagni
morbidi prati ancor
pieni di vita
spontanei fiori
è come tornare
indietro nel tempo
camini fumanti gia
alla fine d’estate
casette da fiaba
lontane da asfalti
libellule rondini e la
sul quel picco
un’aquila plana
un ritmo di suoni si
fa piu’ vicino
percepisci un odore
diverso dai fumi
un uomo e un cane
conducono un gregge
rimango incantato
dall’ultimo pastore
antico ricordo
non l’hò mai visto
prima e forse non lo vedrò piu’
m’ha guardato ha
sorriso m’ha detto buon giorno
ma vivere in basso in
basso in città è davvero diverso
quell’odore è
diventato profumo
vita tra i monti
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Spartaco Marcucci
Biografia
Spartaco Marcucci nacque e visse a Camigliano (Lucca) nel 1926.
Autodidatta, sin dall’adolescenza
fu affascinato dalla poesia e per questo studiò i poeti classici della
letteratura italiana, appassionandosi soprattutto all’opera del Petrarca, di cui
conosceva a memoria oltre cento sonetti. Nell’età matura estese però la sua
conoscenza ai poeti contemporanei, sia italiani che stranieri.
Quando ancora vi erano nella Piana di Lucca
cantori che improvvisavano contrasti in “ottava rima”, assieme a questi amici
diede vita, sul Colle di Matraia, alla “Stanza della Poesia”, nel quale
periodicamente si riunivano per improvvisare, declamare o commentare poesie.
Solitamente schivo alla divulgazione pubblica
della sua opera, mai volle infatti aderire agli inviti a pubblicare una raccolta
delle sue composizioni, partecipò a pochissimi concorsi di poesia, restando
fedele solo al premio di poesia in vernacolo “Gino Custer De’ Nobili” di
Coreglia Antelminelli e al premio di poesia estemporanea “Il Boccabugia” di
Vergemoli.
Prese parte però a molte serate e iniziative
culturali sia istituzionali, quali i “Poeti per la pace” a Lucca, sia del
volontariato. Tra queste amava in particolare quelle camiglianesi curate dalla
Corale Giacomo Puccini a cui si sentiva particolarmente legato, dai Donatori di
sangue Fratres e dal Circolo Culturale Piccola Penna.
La sua forma poetica preferita fu il sonetto. Ne
scrisse oltre un centinaio di argomento religioso per le ricorrenze e festività
sia camiglianesi sia dei paesi vicini, Matraia in particolare.
A partire dalla metà degli anni ’70 iniziò la
composizione di sonetti nel vernacolo della piana di Lucca, ispirati a scene e
personaggi della vita rurale della campagna lucchese negli anni della sua
giovinezza.
Vinse l’edizione del 1978 del premio “Gino
Custer De’ Nobili” e più volte ne fu finalista.
Fu uno tra i più fedeli concorrenti del premio “Boccabugia”,
che vinse nel 1976, 1977, 1986 e 1991.
Tra le sue ultime opere preferite vi è il
“Notturno camiglianese” composto per la Corale Puccini e musicato dal maestro e
amico Luigi Della Maggiora.
Dal dicembre 2004 riposa nel camposanto di
Camigliano.
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Tutti gli anni ritorni
Tutti gli anni ritorni, viandante
misterioso sopra la fiorita
del viale. Cammini sul versante
d’amore che ammannisce ogni tua gita.
Lo so che sei Gesù, che il tuo sembiante
va colto con la mano ingentilita,
so che il tuo cuore vive itinerante
nel mondo, lungo i giorni della vita.
Oggi qui sei di casa, sei il signore
delle famiglie. I baci dei bambini
spargono rose sui tuoi passi. Vedi
come la festa suscita clamore
dolcissimo di fede. Come abbini
questi colori fra i celesti arredi?
Spartaco Marcucci
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Era un giorno
di velli
Era un giorno di velli con ir viso
bello ma tristo lae di primavera.
Cecco sonava a vespro e il
paradiso
ci sarebbe volsuto in sulla tera.
Ne’ ccampi gobbon Padre Marfiso
cercava l’erbi e faceva preghiera.
Le poghe voglie nate all’improvviso
morivan prima che vienisse sera.
Lo sa Maria! Col brancatin d’onesco
lì a chiama’ le galline, piro, piro
per fa’ capi’ ch’era spunto un tedesco
in corte per chiappa’ l’ómini a tiro.
Il sole per fortuna ‘un s’era imbresco
ma si rividde anco più chiaro aggiro.
Spartaco Marcucci
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Giovanni
Giangrandi
Biografia
Giovanni Giangrandi, è nato a Lucca il 18 marzo 1949,
dopo aver assolto gli obblighi di leva ottiene la maturità tecnica per geometri
e dal 2004, leggendo le poesie di Gino Custer De Nobili, si appassiona al
vernacolo.
Nel 2008 esce un suo libro inserito nel progetto Capannori
Trentanni dal titolo: Le Rime di GiGi (nella parlata di Lucca appena fòra).
Nella
foto a destra, la foto scelta da Giovanni per la copertina del libro. |
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IL SÓNATORE
(Luglio 2006)
No, un pioveva;
c’era n dell’aria ‘uell’umidità sospesa
che infradicisce tutto e tutto spenge;
anco
la volontà di vita e la speranza.
Il sónatore, stanco,
seduto n sulla pietra n Canto d’Arco
tieniva
lo strumento fra le mano;
teneramente, come cullasse n bimbo.
‘Uell’occhi micci,
chi sa se per ‘l tempo o lo sconforto
per el nulla accattato per la cena,
fissàvino
vicin un punto all’infinito.
Lente, nel vento,
si libravin le sonnolente note
di ‘uella malinconïa ballata;
anch’esse stanche d’inseguir l’un
l’altra.
Qualcuno, forse,
meno distratto dal via vai di gente
sentiva ‘l motivetto che alitava in aria.
Sentiva soltanto, no, un l’ascoltava.
La gente, distratta,
passadoni
di fianco dava n’occhiata
al cappello floscio che teneva a’ piedi.
Nissun
degnava l’òmo d’uno šguardo.
Giovanni Giangrandi |
IL CAFFÈ DEL BARE
(Dicembre 2007)
A me ‘l caffè
del bare da ‘l nervoso;
no mia ‘l
caffè, che quello un mi fa niente
a fammi
doventà così spungoso…,
a fammi girà
‘ còsi enno le gente.
Vedé una che
‘ngùbbia n pasticcin,
po’ ci
ridoccia su co’ na brioscia
e po’ ti
butta drento al cappuccin
un pasticchin
di dietor…, me m’angoscia.
E se ni dici
nulla nulla qualcheccosa
risponde che
lo fa per limitassi;
<-
meglio ‘osì che
eccede ‘ndunniosa,
io mi vò bene, un
vòle mìa che ‘ngrassi? ->.
Ti limiti na
sega! Perché un’hai preso,
che só, n
panin col cacio o na pizzetta
se propio voi
stà attenta al soprappeso
e cerchi di
ridure la pancetta!
Un’altra ‘osa
che mi dà ‘l nervoso
è quando
lascino n del fondo
‘no strato di
succhero corposo.
Sto fatto a
me mi rende furibondo.
I casi èn
due: o sèi no sfadigato
che un ce la
fai a rumallo un altro po’,
o sei n testa
di casso e hai esagerato
e ce n’hai
misso troppo per ammò.
Ma un’è
fonita ancora, perdindina.
Avete visto
mai di quella gente
che gira la
tazzina di mancina
perché da
‘uella parte certamente
ciànno beuto
n men e un’è appestato?
O perché
un’acchiappa n bicchierin
di plastïa
monouso mai leccato?
No, quello un
va ben; neanco n poìn.
E allora io
lai, rumelo col dito
invece d’adoprà
il cucchialin
che quello n
bocca, se un tu l’hai ‘apito,
ce l’hanno
misso tutti, io ssucchin.
Giovanni Giangrandi |
Stefania Consani (in
arte: La Stroala)
Biografia
Stefania
Consani ( La Stroala) è nata a Lucca il 15 Settembre del 1964 e ha sempre
vissuto a Camigliano.
Autoironica per natura mi ha
confidato : " ....
non essendo ancora riuscita a pubblicare un libbro, perchè son una ciua...., ho
però intanto preparo 'r titolo...:" VANDO I' MMICCI S'ACCORSEN CHE 'UN POTEVAN
VOLA'....SI MISSEN A SCRIVE."
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“LO STRADON”
Ir viale della Villa a Camiglian
vello de’ ccipressi per’intende
lo chiamin lo Stradon in monte e ‘n
pian
e méglio di ‘osì ‘un si pòl
pretende…
Diritto e rinomato è sempre stato
la strada di ghiain e pillorini
di và e di là c’è anco ‘n popò di
prato
du’ vàn a scorassà grandi e piccini
In cima c’ènno ‘r pozzo e la àtena
i tterminini e la pompa in un cantin
in fondo ‘r ponte e’r bare in sulla
sana
a mmezzo ti ci trovi Menucin
Da ttempi della guèra iscitte sàn
Tedeschi, Ameriani e camionette
vand’ismissen di tirà le bombe a màn
ci tornonno a caminà le bicirette
Oh te che bbe’ riordi der passato
vand’ero piccinina e stavo lì…
co’la merenda ‘n mano e’l sole ‘n
capo
i ppiedi scarzi sia Domenia o Luneddì
Ce n’eran propio tanti di bimbetti
impataccati e sudici eran tutti
co’r moccio ar naso e co’ gginocchi
rotti
‘un c’era distinsion tra belli e
brutti..
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D’estate, ‘r giorno, doppo i’ riposin
le donne tutte ‘ntente a riamà
noarti a ffà ddispetti e a rimpiattin
mì ma’ sempre a contende “vieni và!”
Lucia, Fernanda, Velia e Natalìa
Giovanni, Antonio, Sergio e anco
Pinzin
di tutti ‘r nome ‘un me lo riordo mìa
ma ‘un mi posso mai scordà di Renatin
Vando passava “Guglie” che paura….
la balla ‘n sulla gobba e via pianin
lullì ‘un sentiva neanco la calura
e noi a tremà lì come un lumicin…
E ppo’ arivava ‘r giorno der pertèro
la festa più sentuta ner paese
a ffà ‘r tappeto bello per davero
tutt’ insieme inginocchion senza
pretese
En cambie tante ‘ose da vell’ora…
‘un senti più vér vecchio profumin
dell’erba e della pece venìa fòra
‘un vòl cantà più neanco un cardellin
Un nodo in della gola a mentovallo
la nostargia der sano porveron
e anco se oggi tutto par più bello
nel cuore sta a’riparo ir mì
stradon…..
5 Giugno 2008
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L’UCCELLO MORTO
En passi tanti anni da vando
divorziai
di morto ci patitti che lo voréi
scordà
c’èn anco de’ riordi, ‘un l’aréi
ditto mai
che solo a ripensacci mi fan
iscompiscià
Insieme a ‘na mì amìa divisi ver
destin
che anco lé s’è lascia in quer
tempo lì
ci sian console a turno tanto
perbenin
ma s’è anco riso un mucchio ,
vésto lo vò dì
Minigonna, tacchi e’n mano la
borsetta
s’era du’ belle spose a giro come
tante
di certo un po’ più furbe per via
della gavetta
‘un s’era mìa cattive….ma neanco
delle sante
Un giorno di Domenìa a Lucca a
passeggià
la noglia e la calura c’avevan
rotto assai
e mentre si pensava a quer che
poté ffà
successe vésta ‘osa che ‘un mi
scorderò mai
Ti véggo da ‘na parte bella
parcheggiata,
con drento a rimiracci un bardo
giovanotto,
‘na machina sportiva tutta
scoperchiata
e lù che ci fissava come ‘no
sciabigotto
Ir bello è che davanti ner cofano
lustrente
ver poverin davéro ‘un s’era
propio accorto
appicciàto a’r muso dell’auto sua
potente
tra i ddù fanali stava un
uccellino morto
‘Na pàssora pareva.. tutta
spennacchiata
che fine disgrassiata lé avéa
dovuto fà
pensai come faceva a èsse lì
ficcata
doveva avella ‘nforca a gran
velocità
L’idea viense veloce di ‘orpo come
‘n tròn
nascette da’r bisogno disumano di
scherzà
e dissi: “ora si ride, io
pillaccoron!
Te sta a vedé a lullà che fin nì
faccio fa”
|
Lù bello’mpomatato seduto lì a’r
volante
co’r gomito appoggiato sopra lo
sportello
chi sa che nì buriava drento ‘n
della mente
e anco si ‘apiva…credeva d’èsse
bello..!!
Co’ l’occhi provocanti allòra lo
guardai
ir passo più ancheggiante vorsi
avé ‘mpostato
e vando in su di lù un poco mi
chinai
era già tutto rosso e di sudor
bagnato
“Mi spiace disturbare il dolce suo
riposo
ma ci’ha un uccello morto proprio
lì davanti
tutto incastrato e torto dentro là
a quel coso…
l’ha preso proprio in pieno, i
nostri complimenti!!!”
Co’l’occhi spalancati e co’la
bocca aperta
mancava che la bava ni colasse giù
di fòra
rimase lì’mpalato vésta è ‘na ‘osa
certa
e ppe’rincarà la dose io nì dissi
ancòra:
“Ma via su stia tranquillo in
fondo non è niente
è che di questi tempi la cosa un
po’ “mi tocca”
le chiedo di aiutarlo.. e molto
gentilmente…
con la respirazione… quella Becco
a Bocca…”
Un pelo ci mancò che ‘un si
travagliasse
per via di véste frasi così pogo
‘nnocenti
e noi lì divertite come du’
malaisse
con un soriso aperto a
trentavattro denti
Sortitte pian pianin co’l’aria da
cretino
levò l’animalin da vell’incastro
strano
con languido saluto e sguardo
birichino
lì ritto si lasciò con
quell’uccello ‘n mano
Appena si fu sole, piegate ‘n due
da ride..
‘un ci risciva neanco di stà co’l’occhi
aperti
dar nulla viense fòra, ver giorno
lì si vide..
ir ghiaule fa ‘ttegami ma noi si
fa’ccoperchi…!!!
15 Luglio
2008
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POVERAMME’ che fine….
Ohimmè com’è difficile accettallo,
“Che cosa?” chiederete perbenin
mi vò fermà un menuto a raccontallo:
“vedè’nvecchià ir mì ‘orpo, io bonin!”
Oh te, vant’era facile campà…
dicevin che paréo ‘na principessa
co’lo specchio oggi son a questionà
a vedemmi ‘osì concia ‘un c’ero
avvessa…
Vò ‘ncomincià di cima da ccapelli
l’ho sempre ‘uti neri e per un verso
da ‘n pesso’n qua mi tocca sta a
leggalli
perché con quelli bianchi è tempo
perso
L’occhi eran normali ma bellini
vigliacco’r mondo’nfame vante grinze!
Erin maroni e anco un popò verdini
pe’aprilli ammodo mi ci vòl le pinze
E vò arivà alla bocca per i ddenti
se vòi, davanti possin anco passà…
ma velli drento èn tutti dondolanti
tra pogo ‘un potrò più neanco biascià!
Ir collo lo chiamavin “deorté”
insieme a tutto’resto “siluètte”
un’affuffignìo che …’un si pòl vedè
Gesummaria e po’ furmini e saette!
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Le puppore ‘na vorta belle ritte
‘un ce n’era di bisogno di rifalle
le guardo ora e véggo du’ ova fritte
e’r mì marito ‘un sa ‘nduve cercalle…
La pancia po’, ‘un mi ci fa pensà
di tutto lé è la mì disperassion
‘un sai se n’antro bamboro ho da fà
o se sotto la pelle c’ho un pallon..
Le chiappe, velle èn ite tutte aggiù
e vando vaggo ar mare ‘un so che ffà
mi metto ar sole ‘n tèra e ‘un m’arzo
più
senza ‘ ccarzoni ‘un posso rimedià!
Se po’ nelle braétte mi
guardassi
ma è méglio lascià stà, te lo dìo io
allora si che c’è da sgomentassi…
che come ‘l lupo lì l’ho perso
anch’io!
La fine ènno le ‘osce, e ho ditto
tutto
che belle e lisce eran d’accaressà
una tristessa péggio che d’un lutto
da tanto che le vedi ciondolà
Ma propio io ‘un lo so vésto
vecchiume
che’n quarche modo devo sopportà
sennò ‘un mi resta che tirammi’n
fiume
o lascià perde tutto e stà a guardà…
6 Giugno 2008 |
ESSENZA
Te sei
nella luce già la mattina
sei
drento a’r profumo che vièn da’r caffè
sei’r
sonno agitato, la mì medicina
miglioni di vorte mi chiedo perché
Perché
la tu’ essenza dev’èsse presente
s’appiccia
per bene sulla mì pelle
abbacca’r silenzio e continuamente
rimbomba ne’r vòto co’l’eco ribelle
Ne’r
tempo dà dietro a tutti i mì giorni
ni
rubba lo’ntento, la vitalità
malessere seppo e senza ‘ontorni
che
lèva da giro la voglia di fà
Mi
perdo e ti trovo in ogni mì gesto
ne’r
fiato pesante che mi stiaccia’r petto
‘un
c’è ‘na ragion e neanco un pretesto
a
dammi ‘na man a fatti dispetto
A
datti la fuga lontano da’r cuore
spogliatti di tutto ‘r sapore che hai
tiratti di rieto l’immane dolore
c’aregge i mì fili e neanco lo sai
Mi
giro e ti veggo ne’ppassi che ho fatto
ne’r
vento, nell’acqua, ne’r cielo seren
davanti a’r doman te sei dirimpetto
sei
nella buriana e ne’r sole che vien
Te sei
ver trambusto che mi rimane
sei la
più grande dell’ossessioni
ma per
‘un andà a finì nelle grane
sarà bèn tu ti lèvi un po’ da ‘oglioni…
25
Aprile 2009 |
PIOGGIA
Quello stesso sole
invernale
che lucidò il cielo marino
io aspetterò
e mi spoglierò
degli abiti inzuppati
e mi rannicchierò sotto un
solo raggio
come un vecchio barbone
si accovaccia in un angolo
di strada
osservando
il mondo che vive e che
passa
noncurante
sui cartoni stesi del suo
letto…
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Le poesie che ci arrivano:
VIA DELLE
PIANACCE
( di Giorgio
Lunardi )
In via delle
Pianacce io ci son nato
ci stavo con mi
pa' ch'era Giocondo
con mi ma' Beppa
che l'avea sposato
per me
rappresentava tutto il mondo.
loro
lavoravan in fabbrica i cappelli
fatti con la
paglia seccata di Firenze
c'era Mario,
la Mora e non sol quelli
la Gambona,
Emo 'un fò preferenze.
Quell' Emo
che urlava senza freno
vendendo
stacci, Pò io m'ammazzo,
il su' miccio
tirava un baroccio pieno
sono arcuni
riordi quand'ero ragazzo.
Ma po' la
fabbrica di lì viense levata,
andavan la
mattina sulla lor bicicletta
quando
all'Arancio a Lucca fu portata,
infine i mii
compraron la Lambretta.
La gora che
al merlo andava piano
ora l'han
chiusa con un paratoio,
si pescavan i
ranocchi nel pantano,
le donne
lavavan i panni al lavatoio.
Andavo alle
elementari di Fettino
poi a
mezzogiorno da nonna Maria
nella cascina
sul viale a Menucino,
era del
Torrigiani una sua fattoria.
In una corte
ci stava nonna Dide
e da piccin
m'attese sempre gaia,
facea le
sporte, ed io stavo a ride,
perchè
narrava storie sulla naia.
Che ir marito
Abramo aveva fatto,
nella prima
guera ed era cavaliere,
ai sui piedi
d'inverno stava il gatto
per scaldarsi
come un braciere.
Li vicino
alla mi 'asa in altra corte
c'era una
bionda bella un visibilio,
tutti noi
ragazzi si era cotti forte,
era tale
Paola la nipote di Basilio.
Basilio aveva
un grande magazzino,
di feramenta
che vendea ai mercati,
il figlio
Ario guidava il camioncino,
da tutti alle
Pianacce erano stimati.
In cima
Stella c'avevo molti amici
Sandro,
Bebbin, Roberto i più vicini,
si gioava
all'indiani, erimo ben felici
di coglie le
ciliegie su al Fiorentini.
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Renato di Bebbin
era ir carzolaio,
stava giornate
seduto lì al dischetto,
cuciva a filo
nero di scarpe un paio,
e po' ciabatte,
soccoli un mucchietto.
D'estate che la
zucca era matura
colla più grossa
si facea la morte,
occhi tondi, per
bocca una fessura
candela accesa,
e si tirava a sorte.
A chi doveva
piazzarla alla porta
dello scelto
perchè s'impaurisse
ma a volte la
cosa andava storta
qualche nocchin
allora si rimisse.
Quando il grano
era bello d'oro
le lucciole
volavan col lumicino
si acchiappavan
perchè da loro
sotto i
bicchieri ci fusse un soldino.
Si, s'aspettava
che un bel soldino
fosse lasciato
li, da vella lucina,
contavamo quant'era
il regalino
quando ci si
svegliava la mattina.
Quante cose s'en
fatte da bimbetti
botti dentro le
fosse cor carburo,
sassi colle
filombre sopra i tetti
scritte colla
carcina sopra il muro..
Viva il Milan o
l'Inter, al pallone
si giocava, la
strada come campo,
però coi tiri
dentro a un portone
per i vetri non
c'era mai scampo.
Rammento che
l'uva era matura,
andai a giro
sulla bicicretta Ganna,
senza le mani,
senza un po' di paura
picchiai ner
palon, ruppi la canna.
Quanti ricordi
c'ho di questa via
tutte le genti
che allor ci 'onoscevo,
quelli di ora
'un so più chi sian,
però una
preghiera a questi devo.
Che le Pianacce
non cambino mai
resti una via
colla su' tradizione,
quando poche
auto 'un davan guai,
si faceva la
sagra con il minestrone.
Che vita qui al
paese dei balocchi
quando la strada
non era asfaltata,
la polvere
andava dentro all'occhi,
ma l'esistenza
di noi tutti era beata.
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L’OFFESA
(
di Carla Becheroni )
Una sera che aspettavo l’omo
mio
col foco dentro al core.
Aspetta, aspetta, ma invano.
E ir foco che avevo lo spensi
con le lacrime che piansi.
Ma la sera, che tutto già
sapevo,
l’aspettai col sorriso amaro,
e furibonda com’ero d’esser
offesa,
quando arrivò io cominciai a
menà botte
e in quella confusione
lo beccai in posti assai
strani!
Lui diventò pallido dalla
pena.
Poi aggiunsi: E non è finita
ancora.
Quando becco quella zoccolona,
le mollo uno sganascione
e vo’ vedè se poi si vanta
dav’è pure il “visone”.
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“LA BEFANA A
MI’ TEMPI”
( di Carla Becheroni )
Vi voglio
raccontà la storia della Befana in quer di Lucca.
Allora c’era a
chi ni portava sotto a letto ner canestro;
ammè invece me
la portava giù dar camin.
Io, ir mi
fratello e la mi sorella, ci mettevimo ner canto der foo
e a una cert’
ora la Befana con una vocina diceva:
Sete boni o
cattivi? Sennò vi tiro il carbon!
E noi in coro:
Boni !!
Allora buttava
giue varche arancio e po’ con un cordin
calava giue tre
carsine con drento varche caramella,
un sigaro di
menta e un toroncin.
E noi erimo
tutti ‘ontenti.
Invece la mi
‘ugina che era grande disse:
O’ nonna
comemmai a me umm’ha portò nulla?
E la mi’ nonna:
O citrulla, o tu
unnosai che chi
uninceppa
unimbefana!?
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